No al Km zero, SI al “Regionalismo critico”

Venendo dall’architettura, e non dalla cucina, ho usato gli ingredienti come fossero mattoni. E i mattoni non si dispongono in cantiere senza avere un progetto.

Quale progetto? Quello del “Regionalismo Critico”, un movimento nato in seno all’architettura moderna.

Kenneth Frampton coniò questo termine per definire un approccio al costruire che tenesse conto delle specificità locali senza rinunciare agli insegnamenti della modernità. Similmente volevo fare io, applicando cioè il metodo ad una cucina che usasse prodotti locali senza cadere in un’imitazione vernacolare.

Pizze con coppa di suino dei Nebrodi accompagnato da cioccolato cubano, per esempio, che ne equilibra il sapore. Mozzarella di bufala siciliana abbinata a una lussuriosa spruzzata di rafano giapponese. Crema di capperi eoliani risvegliata da un intenso aroma di caffè colombiano.

A mio modo di vedere fare Regionalismo critico significava inserire quindi ingredienti volutamente di contrasto all’interno di un piatto anche tradizionale per esaltarne le caratteristiche. Un regionalismo che sia quindi privo, per così dire, di luoghi comuni, o peggio ancora di folklore, di vernacolo, di dialetto, e mirato, invece, a fare del genius loci una fonte di ispirazione culturale.

Avere “coscienza di luogo” significa per me coltivare la capacità di vedere il contesto in cui lavoriamo come valore e senso di una relazione possibile tra individuo, società locale e produzione di valore.

“Sorprendente sicilianità” è quindi, per me, l’essenza di questa ricerca: la Sicilia è una terra ricca di contrasti, nelle sue contraddizioni, e i suoi luoghi chiamano e ispirano per vocazione.

Regionalismo critico, quindi, non è tanto il senso dell’ambientazione quanto una scelta di stile che porta ad una coerenza interna all’opera. Quando in un lavoro, in un’impresa, in un’opera d’arte il mondo riesce a farsi interiorità, allora questa coerenza può essere raggiunta.

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