Il Coronavirus ha causato o solo accelerato la crisi della ristorazione?

Tutti ricordiamo la bolla immobiliare del 2008 e la bolla delle dot.com del 2000. E nel settore ristorazione ?

Qualcuno già si domanda: i ristoranti italiani, prima del coronavirus, erano già troppi?

Facciamo due conti…

“Il Coronavirus ha accelerato l’esplosione di una bolla: troppi ristoranti aperti in Italia, con un tasso di chiusure annue che, già prima della crisi, era significativo” (Dissapore).

I ristoranti cadono come foglie secche sotto il vento incessante del Covid. Ma non è che a ben guardare quel vento ha contribuito a far scoppiare una bolla che conteneva davvero troppe imprese?

In Italia la situazione purtroppo non è delle migliori: secondo il report Istat, nel 2020 hanno chiuso in totale 73 mila imprese, di cui almeno 17mila non riapriranno. Di queste, circa 30mila (di cui già 5 mila non prevedono di riaprire) fanno parte del settore della ristorazione, che per l’anno appena concluso ha fatto registrare un calo di fatturato di oltre il 50% (dichiarato dal 26,7% delle imprese) e tra il 10 e il 50% (per il 56,3% delle imprese).

Ma quanti erano i ristoranti in Italia?Non è che c’era un surplus di imprese destinate comunque – prima o dopo – alla chiusura? A dicembre del 2018, negli archivi delle Camere di Commercio italiane risultavano attive 336.137 imprese appartenenti al codice di attività 56 con il quale vengono classificati i servizi di ristorazione.

In Italia siamo 60 milioni: dunque si parla di un ristorante ogni 178 persone.

La cruda realtà è che questa crisi ha contribuito, con impietosa velocità, a far scoppiare quella che a tutti gli effetti era una bolla sovrastimata: troppi ristoranti per numero di clienti. Si conta che a Milano ci siano più ristoranti che a New York, che ha molti più abitanti.

Ora, non si tratta solo di sperare che sopravviverà chi riesce a tenere duro. Ricordate la bolla delle biciclette?

Nel lontano 1896, nella Borsa della City di Londra, portò le società produttrici di biciclette a triplicare il loro valore in pochi mesi, per poi essere quasi tutte spazzate via dal mercato nell’arco di una manciata d’anni.

Seguimi in questo veloce viaggio indietro nel tempo, perché questa storia vecchia di 120 anni ha molte lezioni di business da raccontarci.

Come detto, siamo nell’Inghilterra di fine Ottocento e, dopo oltre un secolo di tentativi poco riusciti di inventare quella che sarà la bicicletta (che nelle prime versioni era senza manubrio sterzante, senza freni e senza pedali, per poi passare anche a quella con la ruotona anteriore), arriva sul mercato il primo ciclo con le ruote di dimensioni uguali e la trasmissione posteriore a catena.

Poco dopo vengono inventati i primi pneumatici a camera d’aria, indispensabili per affrontare le strade del tempo tutt’altro che regolari, e il gioco è fatto: è nata la bicicletta come la conosciamo oggi.

Diventa immediatamente un simbolo di modernità, libertà e indipendenza, soprattutto per l’emergente piccola borghesia inglese, che ancora non poteva (e magari nemmeno voleva) permettersi il classico cavallo.

Passano gli anni e arriviamo alla bolla del 1896, anno in cui in Gran Bretagna “la febbre della bicicletta” ha raggiunto livelli record, tanto che, pur lavorando a pieno ritmo, le circa 20 imprese produttrici di biciclette faticano a stare dietro agli ordini sempre crescenti.

Ecco quindi che, in pochi mesi, le società di biciclette quotate alla City triplicano il loro valore di capitalizzazione, con il numero dei produttori che quadruplica nello stesso arco di tempo, attratti dai profitti di un mercato che sembra non conoscere limiti.

Purtroppo per loro, il sogno di guadagni facili ha vita breve: la bolla infatti esplode di lì a poco, quando arrivano sul mercato le biciclette low cost provenienti dagli Stati Uniti, che grazie ai loro volumi di vendita e capacità produttiva finiscono per mandare fuori mercato i produttori inglesi (gli Stati Uniti erano una specie di Cina di fine Ottocento).

Il risultato è che nel 1901 oltre una quarantina di costruttori di bici è già fallita, con altre decine che li seguiranno a ruota o che abbandoneranno il mercato.

In totale, oltre il 70% delle aziende non sopravvisse allo scoppio della bolla.

Storia conclusa: quale lezione di business ci insegna la bolla delle biciclette?

Soprattutto che un fatturato in crescita non sempre corrisponde ad un’azienda in salute: un +20% di fatturato in un settore che tira e sta crescendo (magari anche più del 20%) non vale quanto un +10% mentre la concorrenza arranca, perché significa che appena il mercato comincia ad andare in sofferenza, l’azienda finisce a gambe all’aria.

E poi, vince chi ha un sistema di produzione meno parcellizzato, più organizzato, più centralizzato.

In quel caso, le case produttrici di biciclette americane. Nel nostro caso, nella ristorazione, le catene di fast-food… sempre americane!!!

Perché?

  1. ottimizzazione delle scorte
  2. processi produttivi più efficienti
  3. minor importanza dell’apporto umano nella catena di montaggio (leggi chef e camerieri)
  4. Convergenza della pubblicità su un marchio e non su tanti punti vendita

… fanno vincere a mani basse le catene e le faranno sopravvivere al Coronavirus..

E tu? Come puoi entrare, o restare, nel settore Food senza saltare in aria?

Continua a seguire il Blog… Ne parleremo diffusamente.

La soluzione, lo anticipo, è fare gioco di squadra.

Non è un’epoca per solisti.

Per raggiungere gli obiettivi, nel mondo dell’impresa, è indispensabile imparare a fare gioco di squadra. La condivisione di competenze, idee ed esperienze è essenziale, come nello sport. Nonostante ciò, le piccole e medie aziende, che in Italia rappresentano la spina dorsale dell’economia, non fanno rete a sufficienza, dissipando energie e conoscenze. Una modalità, questa, che consente di vincere qualche partita, ma non il campionato.

Questo Blog serve a questo. A fare squadra. A trovare un terreno comune.  È necessario condividere le conoscenze.

Iniziamo ora. Forza.

 

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